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Rimpianti

Pubblicato: 12 febbraio 2013 in Ray School

Alcuni giorni fa mi si è aperta un’occasione, un’occasione che non è stata offerta soltanto a me, ma a centinaia, forse migliaia di persone.
Nonostante ciò, ho potuto assaporare, toccare concretamente un’occasione.
Credo di non averci speso neppure un minuto a riflettere. O forse un minuto si, ma non oltre, e se l’ho fatto è soltanto perché mi sono ritrovato spiazzato, schiacciato dietro una vita di nulla, di vuoto, dove non è mai accaduto dannatamente niente di tanto grande da potermi cambiare la vita, se non in negativo.
Ho subito colto la palla al balzo, ho subito accettato, e inviato la domanda, accolta, per accedere a questa occasione.
Non ne parlerò apertamente, perché non voglio smorzare l’entusiasmo di una cosa che, so quasi per certo, non potrò mai fare.
Ho sempre visto un bicchiere mezzo vuoto, ma forse questo è stato uno dei miei più grandi limiti.
Ho imparato col tempo che bisogna avere un po’ di fiducia in se stessi, per vivere, ed io questa fiducia non ce l’ho mai avuta.
Eppure, alcuni a volte mi hanno detto che sono bravo, che in certe cose sono competente. Non mi sono mai fidato degli apprezzamenti altrui, dietro i quali c’è il pericolo che si nasconda la pietà, e la menzogna di conseguenza, pur di “far piacere” o non avvilire.
Ma costoro, gli altri, ogni volta che apprezzavano qualcosa di me, restavano ignoranti di fronte alla negatività che io nutrivo nei miei confronti. Di conseguenza, non ho mai potuto capire se quelle lodi fossero sincere o meno.
Mi fidavo solamente di me stesso, ma come realizzare un parere oggettivo basato su me soltanto, se io ero talmente negativo?
Poi col tempo è scattato qualcosa. Credo sia stato ai tempi in cui mi sono messo a scrivere il mio primo vero romanzo impegnato, Impero, che tra l’altro non ho mai pubblicato ma vorrei farlo.
Lì per la prima volta è accaduta una scintilla: qualcosa fatto da me, creato con le mie mani, mi piaceva.
E mi prendeva gusto assaporarlo, continuarlo, rifletterci, farlo leggere agli altri.
Ed ecco che i ruoli improvvisamente hanno iniziato ad invertirsi: qualcuno ha iniziato ad osservare le mie opere in maniera oggettiva, criticandole se andavan criticate, ed io a difenderle.
Da allora, ho capito che non solo io, ma chiunque metta della buona volontà in ciò che fa, non produce merda. Perché produce sentimento. Se qualcosa è fatto col cuore, con l’anima, non può essere spazzatura. Anche fosse il prodotto più brutto di questo mondo.
Bastava del sentimento in ciò che facevo.
E allora ho iniziato a credere di poter fare qualcosa, di poter aumentare almeno un po’ la mia fiducia. E ho creato le sceneggiature, e i cortometraggi, e ho deciso di mia iniziativa di imparare anche a montarli.
Finalmente vedevo qualcosa di mio prendere il volo.
Tutti in fondo speriamo prima o poi che qualcosa di nostro faccia successo, credo sia l’aspirazione di ogni produttore di amatorialità.
E riuscire un giorno a pubblicare un video su un mio canale, con me attore, un video scritto da me, diretto da me, e montato da me, ha fatto di me proprietario di quel video. E tutti coloro che lo hanno visto o lo vedranno in futuro, faranno riferimento a me soltanto quando dovranno apprezzare o criticare.
E questo mi è bastato a rendermi diverso, a rendermi partecipe di un progetto più grande.
Quando poi mi si è presentata questa occasione, non ho potuto fare altro che ribadire, di nuovo, che qualcosa so fare.
Sarà un test, andrò a verificare se quella cosa poteva andare per me. Nessuno può fare tutto, questo è vero.
Ma non ci si può permettere di saltare, di ignorare, di perdere un’occasione. L’occasione non è solamente un concetto colorato di soldi creata ad hoc per sfondare e far successo. L’occasione è un momento nella vita che non ricapiterà. E’ un momento che se ignorato potrà generare rimpianto. E il rimpianto è uno dei peggiori mali che affliggono l’uomo.
Morire con un rimpianto è la cosa più triste che possa capitarci. Provate a pensarci, a pensare a quante cose potrebbero essere andate diversamente nella vostra vita. Se qualcuna di queste , al solo pensiero, riesce a stringersi intorno al vostro cuore, a mozzarvi il fiato, a farvi male, allora saprete che a quella cosa avevate tenuto veramente. E avrete un rimpianto.
Non mi importa assolutamente come andrà a terminare questa avventura. Ma ciò che conta, è che non avrò il rimpianto di dire di non averci almeno provato.
Questo mio post è diverso da un po’ tutti i precedenti basati su di me, sui racconti della mia vita. Qui voglio invitare tutti coloro che mi leggeranno.. voglio invitarvi ad aver fiducia delle vostre capacità, a non farvi intimorire da nulla. Perché se lo farete, è probabile che non potrete tornare indietro. E ricordate, un rimpianto non potrà mai esser cancellato dal vostro cuore.

Normalità

Pubblicato: 24 aprile 2012 in Ray School

Premetto che non sono pratico di certi metodi di procedimento per la stesura di un articolo, ma mi sento piuttosto voglioso a tentare questo approccio contro la mia natura.
Il tutto è nato da una banale conversazione quotidiana con un amico a cui ho domandato “Come va?” , e lui mi ha risposto “Normale”.
Al che, mi si sono aperte due opzioni: dare per buona la risposta Normale, oppure , come poi ho fatto, domandare a mia volta “Che cosa intendi per Normalità”?

Non è una cosa banale, se ci si riflette. Nessun concetto della lingua è mai banale. Le parole esprimono sempre mille significati, e dietro a pochi fonemi si nasconde un quantitativo di significati sbalorditivi.
Allora ho voluto rifletterci su, e cercare di indagare più a fondo nel concetto di Normalità.
Ripeto la domanda. Che cos’è “Normale”?

Il dizionario (e la definizione stessa di Normale) ci darebbe come risposta una cosa del tipo “Si dice normale ciò che è condiviso dai più”;
Ecco la definizione secondo dizionari.corriere: Condizione di ciò che è normale; stato consueto,regolarità.
Wikipedia ci dice: L’aggettivo normale sta solitamente a indicare la mancanza di fattori eccezionali.
Il dizionario Zanichelli mi risponde invece: “Normale: Che è conforme a una regola o all’andamento consueto di un determinato processo.

Regolarità, dunque. Conformismo.
E se ci pensiamo, il conformismo indica un plus di individui.
Non esiste legge se non esistono individui che rispettano tale legge.
Essere conformi significa essere i più, essere la maggioranza, quella che detiene il senso di normale in sé.
Ed è un po’ il concetto ribadito di ciò che ho scritto all’inizio: normalità implica un sociale, perchè si è “normali” se si è i più:
Non possiamo parlare di un individuo normale ed una massa anormale, non avrebbe alcun senso.
Dunque presupponiamo una massa di individui, indistinti. La massa è normalità, dunque?
Neppure.
Normale implica una relazione di un sé individuale ed un loro.
Se questi due elementi non coesistono, non può esserci categoria. Di conseguenza è esclusa la diversità. Ma se non c’è diversità, se c’è solo uguaglianza, che cos’è il normale?
Non ha senso in questo caso parlare di normale, se non c’è diverso; E’ per questo che ribadisco una duplice relazione.
Abbiamo due variabili:
Relazione col sè
Influenza società
E “Normalità” è la costante.
Non esiste difatti un “più normale” o “meno normale”.
Non possiamo parlare di una scala graduata di valori, perchè il normale è un valore arbitrario che attribuiamo su base empirica.
Quello che “è più”, è “normale”.
Ma a questo punto, sorge una domanda spontanea: La normalità npn è un concetto relativo?
Certamente, ma basato su un punteggio arbitrario empirico.
La normalità varia in base alle situazioni, ai contesti, agli individui. Ma ogni situazione, contesto, individuo avrà in sè ben prestabilito il concetto di normalità. Ben saprà qual’è la norma, qual’è il più adatto, il più seguito. Pur non condividendolo.
La normalità per sè non esiste. Esiste invece la normalità del sé in un contesto assoluto in cui l’altro non esiste.
Procediamo per dimostrazione per assurdo: ammettiamo che esista un unico individuo.
Ora, costui non avrebbe motivo di dichiararsi normale se fosse l’unico individuo esistente al mondo. Ma se lo consideriamo per assurdo, tralasciando confutazioni personali e pensieri di un unico verso un tutto che non c’è, egli PUò dirsi normale.
Normale perchè egli è unico. Normale perchè non esiste l’anormalità.
Dopotutto, che cos’è l’anormalità?
Consideriamo normale ciò che è maggioranza, o meglio,ciò che la maggioranza condivide.
Ma anormale non è minoranza. Le minoranze sono tali e basta.
Anormale è uscire dagli schemi. Non avere alcun punto di relazione. Essere inclassificabile. Pertanto, anormale è la minoranza della minoranza. O ancora meno!
Potrebbe scaturire un legittimo paradosso circa il procedimento assolutistico di poc’anzi: se l’individuo è il solo esistente, va classificato in normalità o anormalità?
Non avrebbe senso classificarlo, perchè la classifica presuppone un contesto sociale, con parametri diversi da zero.
Ed ecco dunque il senso di tutto questo.
Che cos’è normalità? Che cos’è anormalità? ha senso classificarle?
No, direi che non ha più alcun senso.
Ha però senso in un contesto paradossale e assoluto , ma non è certo qualcosa di concreto.
Per questo presupporrei che la normalità non esiste. Ma non per questo non c’è senso nel parlare di qualcosa che non esiste.
L’uomo è l’unico essere capace di astrarre, dopotutto.
Non è tanto relativismo. E’ astrazione relativa.. direi che ci siamo comunque vicini.
Se volessi dare una conclusione di tutto questo ragionamento, oltre alle ultime righe qui sopra citate, mi dovrei grattare il capo.
Che motivo c’è di trarre conclusione da un’astrazione paradossale?
Potremmo forse invece parlare di soluzione. Ecco, come risolvere in un equazione il concetto ? Quale valore può ottenere la X normale?
Tenendo conto che normalità è arbitraria, dunque costante in un grafico matematico, come varierebbero a questo punto le variabili in termini assoluti di Relazione sociale e in termini relativi di Relazione col sè?
Forse varrebbe la pena rifletterci.
La lingua umana è così densa di significati, che essi si perdono in gran parte nella banalizzazione dell’utilizzo quotidiano. Ma racchiudono in sé grandi verità. Normale non esiste perchè dipende dall’altro. Ma normale non è neppure relativo, perché presupporre un altro non implica presupporre anormale. Dunque normale è solo costante. Relativa, si. Ma una costante variabile all’interno dei suoi infiniti sottosistemi.

E’ veramente così tanto tempo che non mi siedo al computer per scrivere un articolo sul mio blog da rimpiangere ogni singolo giorno trascorso in questo lasso di tempo nel non averlo fatto.
Pertanto, con l’intenzione di recuperare questo tempo perduto (mi scuso anche per la tripla -ora quadrupla- ripetizione della parola “tempo” xP), porto oggi un articolo che non parli solamente di me e dei miei pensieri affogati nella coscienza, ma che in sé narri di qualcosa d’attuale, all’ordine del giorno, qualcosa che solo negli ultimi anni s’è imposto. Ma solo perché prima non esisteva.

New media. Social media. Social network. Varie facce della stessa medaglia. Comunque le si voglia chiamare, stiamo parlando dell’avvento del digitale, l’era del web.
Ma un web attivo, di dominio pubblico, aperto a tutti, che da strumento d’informazione si è via via trasformato in strumento di comunicazione.
Da poco iniziato il secondo semestre del secondo anno all’università di scienze della comunicazione a Urbino, mi sono imbattuto in una materia veramente interessante, che fa molto riflettere.
Sociologia dei new media.
Studio sociale sulle nuove forme di info e comunicazione.

D’altronde, noi tutti oggi non ci domandiamo nemmeno più cosa davvero questo cambio d’assetto di comunicazione mondiale abbia significato.
E’ successo e basta.
Oggigiorno ogni adolescente (ma con false età anche da età minori) possiede almeno una pagina facebook, o è iscritto a qualche altra piattaforma con un profilo personale.
Uno stile di vita accettato dalla società, e se ci pensiamo, in maniera talmente veloce che non ce ne siamo nemmeno resi conto.
Facebook è stato lanciato nel 2004 dopotutto. Non sono passati neppure 10 anni, ed ecco che centinaia di milioni di utenti si sono uniti sotto un unico nome per ritrovarsi, per non sentirsi mai veramente separati neppure a migliaia di chilometri di distanza.
Dal tempo dell’invenzione del computer a oggi, ancora molti (specie chi tra gli adulti non ne fa uso per lavoro, o le figure più anziane) faticano a comprendere come accendere questo ammasso di dati e sapere.
Molti nonni non sanno capacitarsi di quanto rivoluzionaria sia la scoperta; Senza togliere nulla alle generazioni passate ovviamente!
E’ solo un dato di fatto, che la cultura umana ha progredito in velocità talmente rapida da non dare tempo per adattarsi alle nuove tecnologie, con l’inevitabile conseguenza che la stragrande maggioranza degli individui si son trovati tagliati fuori dal campo delle innovazioni.
Potevano solo accettare che queste innovazioni ci sono effettivamente state, che è stato l’uomo stesso a crearle, e che inevitabilmente esse sono pensate per un pubblico giovane, per una generazione nuova.
Si trattava di un concreto passaggio dal passato al futuro senza passare per il presente, ma una volta effettuato il viaggio, occorre guardare avanti. Ed ecco che si arriva all’era digitale.
Accettata come un dato di fatto, il mondo era ormai pronto al grande balzo dell’astrazione numerica.
La comunicazione si sposta gradualmente (si fa per dire) online.
E i social network prendono il sopravvento.
Si potrebbe parlare per ore di tutto quello che un tal cambiamento ha generato, sia a livelli di marketing e business, sia a livelli di scambi intercomunicativi tra utenti.
A questo punto mi limiterò a prendere in esame solo due punti: facebook, ed il mio rapporto col social network.
Un social network di così larga diffusione può condurre a infine strade differenti; Lavoro, passatempo, cazzeggio (che poi potremmo considerarlo la forma estremizzata del passatempo), divertimento, ma anche comunicazione in tempo reale, digitalizzazione della vita quotidiana.
Non contiamo nemmeno più le ore che passiamo su facebook.
Non si tratta di un luogo “altro” a cui connettersi dal “mondo esterno” (ma la separazione tra concreto e digitale fino a che limite di arbitrarietà viene delineato? siamo sicuri che, almeno al giorno d’oggi, non siano completamente interscambiabili?) , perché oggi noi viviamo di rete.
La rete ci circonda; Sono necessari pochi tasti (anzi, oggi non abbiamo più neppure quelli con i touch) per accedere al web.
E allora ripeto, c’è veramente una separazione?
Comunicare dinanzi a qualcuno, vedere il suo volto – o meglio, poterlo tastare (volendo), per non cadere nel paradosso delle videochattate- è così diverso dal comunicarvi tramite tastiera? Tramite piattaforma digitale?
Ed è un po’ il mio modo di vedere il web, alla fine.
E’ la nostra vita, e fa parte di essa come qualsiasi altra cosa al di fuori; Il web è stato scoperto, non inventato.
Le onde radio, le radiazioni, e molti altri fenomeni venutisi a scoprire solo negli ultimi decenni, ci confermano quanto la digitalizzazione sia in effetti sempre stata vicina a noi; Semplicemente, non avevamo gli strumenti per usufruirne.
Oggi quegli strumenti li abbiamo, e con essi facciamo di tutto; Da una conversazione con un amico a mille chilometri di distanza, a pubblicità, sondaggi, post e aggiornamenti di status e profili.
Abbiamo degli avatar che a nostra scelta ci raffigurano, creano nuove immagini di noi, delineano i nostri profili, diventano noi e noi ci trasformiamo in essi per la società!
Esistono avatar neutri, altri provocatori, altri ancora divertenti. Ognuno di essi vorrà esprimere qualcosa, e dietro quel qualcosa ci nascondiamo noi.
Che sia un mezzo d’evasione dal quotidiano concreto e reale, lo escluderei; O meglio, forse per molti è così.
Ma ogni nostra azione, commento, movimento sul web – e in particolare sui social network- è registrata come parte di noi.
Nella “realtà” (chiamiamola così, per quanto giudico io stesso questo termine fuorviante) la società ci riconosce in quel profilo, ci studia e ci giudica, e noi ne siamo consapevoli.
Per questo asserisco che il nostro evadere non è mai gratuito.
Ci digitalizziamo, semplicemente perché lo fanno “gli altri”, e quindi lo desideriamo.
Desideriamo restare in contatto. Abbiamo oggi questo assurdo potere di mantenere la realtà ad una tastiera di distanza, e siamo drogati da questa consapevolezza.
Perciò ci connettiamo, interagiamo, considerando normale un processo che da neppure un decennio s’è consolidato ma che è già insito in noi.
E allora qui mi domando: andando avanti su questa linea, come vedremo il nuovo rapporto con la rete informatica tra vent’anni?

E qui per ora mi congedo, prossimamente proseguirò la mia analisi.

Lo scherzo

Pubblicato: 14 aprile 2011 in Ray School

Uno scherzo (o burla o anche beffa) è una situazione creata per produrre un effetto umoristico o comico prendendosi gioco di qualcuno,oppure è un semplice parlare per il gusto del divertimento, senza dare l’importanza normale alle parole

Indagare su che cosa è uno scherzo, e sua quali siano i suoi effetti sarà la mia prima lezione di questo nuovo corso alla Ray School.
Innanzitutto occorre precisare che per SCHERZO , come spiega la nota tratta da wikipedia, si possono intendere due situazioni completamente diverse:
– Creare situazioni umoristiche
– Modalità di linguaggio specifica

La domanda di fondo è: Perchè l’uomo ha bisogno di scherzare?

Scherzare è innanzitutto un processo di socializzazione. Lo scherzo viene prodotto da un emittente, e inviato a un ricevente, secondo una sequenza logica che può svilupparsi in modalità diverse.
Scherzo può essere verbale, tramite l’uso di un particolare linguaggio, anche menzognero.
Oppure può essere sottoforma di gesti, azioni. Quel che è certo, è che saper mentire e saper scherzare sono qualità fondamentali che ci distinguono dal mondo animale.
Sviluppando una tale abilità, l’uomo impara a relazionarsi all’altro. La vita dell’uomo è fatta di comunicazione, e tramite essa e in conseguenza di essa noi ci comportiamo in specifiche maniere relazionandoci all’altro.
E nessuno di noi si sognerebbe di scherzare – ammenochè non voglia tentare un azzardo- con un individuo sconosciuto. Questo perchè non conosceremmo gli effetti che potrebbero manifestarsi in tale ricevente.
Dunque per scherzare si presuppone che l’emittente conosca personalmente le reazioni dell’altro, e che in base ad esse decida come comportarsi.
L’uomo manifesta in maniera differente l’uno dall’altro il proprio spirito d’umorismo, a volte molto largo, altre volte sotterrato sotto i preconcetti morali e l’etica del buon costume all’interno di una fredda società.
Saper scherzare significa saper relazionarsi all’altro nella misura in cui noi vediamo nell’altro una fonte con cui condividere un certo tasso di buon umore.
Senza sconfinare nel tema -per altro molto dibattuto- dell’empatia, concluderei asserendo appunto che la capacità di scherzare è proporzionale al grado d’empatia che è sviluppata all’interno dell’individuo, e non è possibile per noi svilupparla e ampliarla con l’esperienza, perchè si tratta di un’abilità intrinseca in noi.
Riuscir a far sorridere l’altro ci dà buon umore, e ci sprona a sostenere quel grado di pathos emotivo che s’è creato aggiungendone ancor di più.
Azzarderei d’affermare che saper scherzare equivale a saper vivere; E per vivere, intendo all’interno di un contesto prettamente sociale, dove è l’altro che conta, e la nostra relazione nei suoi confronti.